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  • Immagine del redattoreCollettivo Teatro Prisma

IL TEATRO CIVILE DEL COLLETTIVO TEATRO PRISMA

Annalisa Valente è una giovane donna di Taranto che ha avuto il coraggio e l'ardire di dedicare un capitolo della sua tesi di laurea al nostro teatro.

Queste sono le domande che ha posto a Giovanni e queste sono le risposte.


Ciao Giovanni .Con questo spettacolo hai deciso di tenere vivo il ricordo di Lea Garofalo, testimone di giustizia, che ha perso la vita per salvare quella della figlia e per ribellarsi alle regole della ‘Ndrangheta. Da cosa nasce l’esigenza di realizzare questo spettacolo?


Prima di rispondere a questa domanda vorrei fare una premessa. Parto dal presupposto che chi fa il mio mestiere o comunque svolge un’attività che lo mette sotto i riflettori dovrebbe quotidianamente chiedersi “perché lo faccio?”. Io potrei mettere in scena qualunque cosa, da Cechov a Pirandello, da Shakespeare a Sarah Kane, ma la domanda principale che mi pongo quotidianamente è “perché?”. Ogni risposta è soggettiva e personale ma sarebbe bello che ognuno di noi ricercasse profondamente il “perché” delle proprie azioni, la ragione profonda per cui decide di mettere in scena una cosa o l’altra, di scrivere di un soggetto o di un altro, di cantare una canzone o un’altra. Noi che saliamo in qualche modo su un palco siamo soggetti a una cosa che non è né bella né brutta di per sé, ma dipende dall’uso che ne fai, che è l’ego ipertrofico. Ci siamo noi al centro del palco, con gli occhi e le orecchie del pubblico puntati e ci sentiamo appagati da questo momento di “celebrità”. Ma perché lo sto facendo? Può bastare alla mia vita solo questo? Può soddisfare il mio essere autore o attore o musicista il fatto che il pubblico si renda conto di come sono bravo a fare determinate cose? A me ad un certo punto l’applauso fine a sé stesso non è bastato più, volevo altro e ho cominciato a cercare dentro di me la vera ragione del mio lavoro, la vera spinta propulsiva a fare un mestiere che è bellissimo ma è anche, in Italia, molto complesso. Io sono cresciuto con la musica dei Beatles che fondamentalmente ha cambiato, artisticamente e politicamente, il mondo degli anni ‘50 traghettandolo nelle proteste di fine anni ‘60. Sono uscito dalla scuola dell’obbligo, quindi in un certo senso mi sono affacciato al mondo, nell’anno in cui la mafia uccide Falcone e Borsellino, in cui il pool di Mani pulite spazza via una politica compromessa e una figura come Berlusconi nel 1994 scende in campo. Per cui da aspirante artista, a vent’anni, convinto che l’arte ha nei secoli e debba ancora essere funzionale a un cambiamento profondo della società, non potevo rimanere inerte davanti a questi sconvolgimenti in peggio del mio Paese.

Detto questo la figura di Lea Garofalo, con le sue contraddizioni di essere umano e di donna cresciuta in un ambiente impregnato di cultura mafiosa, ma con le altezze di una madre che si rende conto che sua figlia ha bisogno di essere libera come lei non è mai stata, mi sembrava l’ariete giusto per scardinare il silenzio che il sistema ha posto su quella che è, oggi, l’associazione criminale più potente del mondo. Perché le istituzioni non parlano di ‘Ndrangheta? Da cosa nasce questo silenzio rotto solo da voci che urlano nel deserto? L’urgenza di raccontare la storia di Lea Garofalo nasce dal desiderio di scoperchiare il Vaso di Pandora, che poi alla fine contiene il segreto di Pulcinella. Il segreto è che la ‘Ndrangheta oggi controlla il 99% dell’edilizia pubblica attraverso l’acquisto di aziende che producono cemento, che oggi controlla la finanza attraverso la seconda generazione fatta studiare nelle università del nord Italia e che spesso gli amministratori locali sono perfino condannati per comportamenti borderline, come il sindaco di Milano Sala, ma rimangono al loro posto nel silenzio dell’informazione. Il porto di Gioia Taura, modernissimo, all’avanguardia e iper controllato, continua ad essere, secondo il giudice Gratteri, il punto di arrivo di tonnellate di cocaina provenienti dall’America meridionale, Milano continua ad essere il primo centro di consumo di cocaina in Europa. In tutto questo ci sono figure piccolissime, esili, che si ergono invece come muro insormontabile. Un intero clan Ndranghetista è smantellato da una piccola donna che decide di raccontare quello che ha visto, nonostante l’inerzia di uno Stato che non riesce a creare una legge seria sui testimoni di giustizia e alla fine la lascia da sola. E quando lo Stato al quale ti sei rivolta per avere aiuto ti lascia da sola la mafia ti uccide. Esattamente com’è successo per Falcone e Borsellino. Questo è quello che abbiamo voluto comunicare al nostro pubblico, lo spettacolo è un grido e un richiamo alla consapevolezza collettiva di quello che sta succedendo.


Secondo te,che valore civile ha ed ha avuto il teatro nella lotta alle Mafie?


Dipende da cosa intendi per “teatro”. Se per teatro si intende gruppi di persone che, in quartieri di frontiera, aprono degli spazi per accogliere ragazzi di strada introducendoli all’arte scenica, in questo periodo e in quei contesti, ha molto valore. Ci sono delle bellissime realtà a Napoli nei Quartieri Spagnoli o a San Giorgio a Cremano, patria di Massimo Troisi e Lello Arena, o a Palermo o nella stessa Roma, al Corviale, che accolgono ragazzi “difficili” o anche figli di immigrati clandestini che a causa della non approvazione dello “ius soli” sono clandestini essi stessi e ne incanalano le energie e le istanze in lavori e laboratori teatrali, utilizzando proprio questi spazi per allontanarli dalla strada.

Se si intende, invece, spettacoli di teatro civile la situazione si fa diversa. Il teatro italiano risente della retorica della politica su questi temi. Molti spettacoli non fanno inchiesta ma ripropongono cliché un po’ triti e ritriti, si continua a far bere agli studenti una storia condivisa che nulla ha a che fare con la vera Storia. Il teatro in Italia o è al fianco delle istituzioni oppure fa fatica a creare lavoro, io questo lo capisco e capisco anche quelle compagnie che si adagiano sulla storia condivisa. Io stesso con lo spettacolo “Chi ha paura di Aldo Moro” sono stato criticato e censurato da chi di quella storia vuole essere l’unico interprete riconosciuto. Bisogna essere forti per essere contro. Con lo spettacolo “Denuncio tutti. Lea Garofalo” a Milano ho avuto delle reazioni forti perché citavo il sindaco Sala per delle mancanze nell’organizzazione di Expo 2015 o perché spiegavo ai ragazzi il gioco del Monte dei Paschi di Siena, tra prestiti mai rientrati e massoneria. Poi, guarda caso, Sala è stato condannato a 6 mesi di reclusione e il finto suicidio di David Rossi, dirigente senese del MPS, sta scoperchiando tanti imbrogli. Il teatro civile, purtroppo, ha poco peso in Italia soprattutto rispetto al peso che ha nei paesi anglosassoni dove l’arte, da sempre, sfida veramente il potere faccia a faccia. Ma la colpa è di chi lo fa.


Cosa differenzia il teatro dagli altri mezzi di comunicazione,soprattutto quando si trattano temi caldi come quelli rigardanti Le Mafie?



Barbara Grilli in Denuncio tutti. Lea Garofalo

Il teatro è un mezzo straordinario di comunicazione. A differenza della televisione, elettrodomestico che, come diceva Gaber, andrebbe trattato con la stessa importanza con cui si tratta una lavatratice, in teatro il pubblico non è distratto da nulla e ti ascolta. Il teatro non bombarda lo spettatore di immagini diversissime tra loro confondendo tutto ma lo costringe a prendersi durante lo spettacolo delle pause di riflessione, in cui è quasi come se entrasse nella storia che si racconta. Mentre la TV o il cinema ti fanno guardare le storie dal di fuori, in teatro quello storie lo spettatore le vive dal di dentro. Ed è molto diverso a livello emotivo uno spettacolo teatrale da un film. Per cui anche quando si tratta di mafia lo spettatore è coinvolto come se si stesse parlando della sua vita, del suo quotidiano ed è molto più preso e partecipe che davanti a un film in televisione. Le immagini a teatro sono necessariamente poche e sono fisse, per cui lo spettatore non può scappare da quella luce o da quella situazione e se la ricorda anche quando esce dal teatro e torna a casa. Per cui la storia di Lea Garofalo, ascoltata mille volte in televisione, quando la vede a teatro non se la dimentica più. Io incontro persone che hanno visto lo spettacolo un anno fa e che ricordano benissimo le musiche di sottofondo o le date. Oppure mi dicono “ah sai, mi è successo questo l’altro giorno e l’ho ricollegato alla spiegazione che fate voi del cemento depotenziato della ndrangheta”. Queste cose mi stupiscono molto però è la forza del teatro che è decisamente questa.


4-Qual è il messaggio che vuoi lanciare con questo spettacolo e a chi ti rivolgi .?


Sicuramente quando scrivo uno spettacolo non ho un target di spettatori definito, spero interessi a tutti per cui cerco di scrivere uno spettacolo che abbia tanti livelli di lettura. Però non ti nego che quando andiamo in scena per i ragazzi abbiamo quel sentore particolare di star facendo davvero qualcosa di importante per loro, per la loro formazione e per il futuro di questo paese.

Per quanto riguarda i messaggi non saprei, non sono un guru e non abbiamo né io come autore e regista né Barbara Grilli come attrice, l’aspirazione a diventarlo. Noi raccontiamo delle storie, come una volta si faceva intorno al caminetto della nonna e poi il messaggio ognuno è libero di trovarlo da sé. Certo, ci schieriamo sempre, non siamo mai osservatori distaccati perché abbiamo deciso di essere sinceri con il pubblico, ma non obblighiamo lo spettatore a pensarla come noi, anzi. Alla fine dello spettacolo tante volte ci siamo fermati sul palco a discutere con la platea, a sentire voci concordi ma anche contrarie al nostro modo di porgere la questione e questo va bene, ci piace. Ci piace che dalla platea alla fine giungano delle emozioni, vuol dire che abbiamo centrato il bersaglio.

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